Carlo Coccioli
Carlo Coccioli (pronuncia: Còccioli) (Livorno, 15 maggio 1920 – Città del Messico, 5 agosto 2003) è stato uno scrittore italiano.
Medaglia d’Argento al Valor Militare. Da bambino Coccioli seguì suo padre ufficiale in Libia, a Tripoli e in Cirenaica. A Bengasi trascorse l’infanzia e l’adolescenza. In seguito tornò in Italia per studiare, prima a Fiume e poi, all’inizio della seconda guerra mondiale, in Toscana con sua madre. Richiamato alle armi, dopo l’8 settembre 1943 si unì alle prime formazioni partigiane sull’Appennino Tosco-Emiliano. Catturato dai tedeschi, evase dalla prigione di Bologna, episodio che a guerra finita gli valse una medaglia al merito.
Nell’immediato dopo guerra, si laureò in lingue e letterature orientali (araba ed ebraica) presso l’Istituto Orientale di Napoli. A questo periodo risalgono le prime esperienze letterarie che portarono nel 1952 alla pubblicazione a Parigi del romanzo, Fabrizio Lupo. Il romanzo, che l’autore non tradusse in italiano fino al 1978, fece all’epoca molto scandalo per il racconto in termini espliciti della scoperta da parte del protagonista (un cattolico) della propria omosessualità; proprio a causa di tale scalpore, Coccioli abbandonò l’Europa nel 1953 e si trasferì definitivamente in Messico, prima nella capitale, poi dal 1997 a Cuernavaca con il figlio adottivo Javier.
In Messico scrisse le sue opere più importanti, da David nel 1976, col quale conquistò la finale del Premio Campiello in Italia, a Documento 127 (più conosciuto col suo titolo spagnolo di He encontrado al Dios de Israel), nel quale racconta il suo itinerario di conversione all’Ebraismo.
Scrisse correntemente in tre lingue: italiano, francese e spagnolo (e traduceva lui stesso i propri libri).
Prefazione
di Elena Loewenthal
L’autobiografia è un genere insidioso, anzi illusorio. Tanto per chi
scrive di sé quanto per chi legge d’altri. Quando si decide di depositare
la propria vita sulla pagina, infatti, di solito è più per nascondere
che per svelare, per dissimulare che per esporre. Innanzitutto a – e
da – se stessi.
Questo libro è un’eccezione, nel suo genere. A dire il vero, Coccioli
– narratore e intellettuale decisamente fuori dagli schemi – con
“Documento 127” non ha scritto un’autobiografia in senso stretto.
Meglio così. Si tratta piuttosto di un “brogliaccio”, una bozza di vita
che nella sua immediatezza conserva tutta la carica di intensità e passione
di cui racconta. Una sorta di presa diretta, insomma. Persino
il titolo, con quel numero quasi magico – che non indica soltanto la
quantità di capitoli, beninteso – attesta la natura “vera” di questo
libro, senza mediazioni né dissimulazioni.
È infatti un libro composito, questo, dove troviamo estratti di
diari, considerazioni personali sulla scrittura e altro, episodi di vita,
letture, aneddoti, esperienze d’ogni sorta. Non ha una sequenza cronologica
coerente: ci sono svariati salti di tempo. Ma solo per capire
meglio. L’ordine, per quanto approssimativo, è dettato il più delle
volte dai bolli sul passaporto che Coccioli usa per risalire la corrente
del proprio passato. Gli spostamenti, di qua e di là dell’Oceano, fra
Italia e Americhe, fra America e America, lungo il nostro stivale e in
largo per l’Europa, sono molti. Sono praticamente la cifra della sua
esistenza piuttosto errante.
Con questa esistenza, e con la propria opera (è un unico insieme,
naturalmente), Coccioli compie un’operazione assai interessante.
Non dissimile da quella che Saba ha affidato alle pagine della propria
“Storia e cronistoria del Canzoniere”: in parole povere, qui un poeta
fa l’esegesi di se stesso. Scrivendo in terza persona. Capita anche a
Coccioli di fare così, senza la finzione della terza persona, però. Con
maggiore sincerità. Anche questa è una forma di autobiografia. Il lettore
la segue passo a passo, senza mai deludersi né avvertire disagio,
anzi. Coccioli interpreta la propria vita e i propri scritti, mentre si
racconta.
Che cosa ricava, Coccioli, da questa auto-esegesi? Da questa lettura
di sé attraverso la scrittura, che si trasforma in autobiografia?
Molto, certamente.
La sua vita, infatti, assume fra queste pagine una coerenza illuminante.
Tanto è disordinata la forma di questo libro, in apparenza
costituito da una serie abbondante di appunti sparsi per il tempo e lo
spazio, quanto lineare è il contenuto. O meglio, l’ossatura di questo
libro. E dell’esistenza che vi si racconta.
Quest’ossatura è una specie di ossessione. A tratti gioiosa, a tratti
profonda, anzi irraggiungibile come un fiume carsico là dove scorre
sotto terra. A tratti lucida a tratti folle. A volte mentale, a volte
passionale. Questa ossessione è per Coccioli l’ebraismo. Attraverso
l’ossessione, Coccioli racconta l’ebraismo in un modo mirabile, ne
mette allo scoperto i segreti e le contraddizioni. Prima dell’ossessione,
infatti, viene una conoscenza implacabile, quasi perfetta.
La bisnonna ebrea di cui Coccioli porta un ottavo di sangue conta
poco, in fondo, dentro il legame che unisce l’autore all’essere – e
conoscere – l’ebreo che è in lui. Lo stimolo è, forse, un richiamo trascendentale.
Più probabilmente, la seduzione che questa condizione
irrisolta per eccellenza esercita a volte in chi la osserva e desidera
farne parte.
“Io sto con Israele” spiega Coccioli lungo alcune mirabili pagine
sul finale del libro. In questa sequela di “io sto con Israele perché” – la
circostanza è la guerra dei Sei Giorni, nel 1967, ma nella realtà il suo
discorso va ben oltre la circostanza – si legge una sorta di sunto della
condizione ebraica. A Coccioli non sfugge nulla, di questa condizione.
Qui e altrove, in tutto il libro, egli centra perfettamente i grandi
nodi dell’essere ebrei. Nel tempo ma anche nello spazio. Nella fede e
nella tradizione. Nel Libro e intorno ad esso.
Coccioli crede e non crede. La sua è una fede discontinua, ricca
di fertili contraddizioni. Ma non è questo il punto. Il suo rapporto
con l’ebraismo va ben al di là di una fede difficile da condividere. E
anche in questo, il suo intuito – dettato dalla competenza ma anche
dall’ossessione che lo muove – non sbaglia.
Perché, come dice e ripete, essere ebrei prima ancora e più che un
“credere” significa condividere un destino. “Mi sembra vero per lo
meno nella misura in cui – su questo non vi è dubbio – il giudaismo è
in primo luogo un destino. Completerei il concetto aggiungendo alla
parola ‘destino’ la parola ‘vocazione’ ”. Per questo, come dice ancora,
più che la fede è la fedeltà alla tradizione che tiene insieme il popolo
ebraico – sì, lo chiama così, popolo: per quello che è.
In queste pagine, insomma, non manca nessuna di quelle coordinate
fondamentali che dettano l’esistenza ebraica, di oggi come da
sempre: la consapevolezza di appartenere a un destino (ma anche di
poterselo costruire dentro la storia, e rinnovarlo, anzi capovolgerlo).
La condizione di esilio, che Coccioli sente così congeniale – inteso
come lontananza e dispersione. Il sentimento dell’attesa, che guida
le parole e i gesti quotidiani dell’ebraismo molto più di quanto non
possa apparire: “Ora che ci penso, mi sembra che la prima cosa che
apprendessimo sugli ebrei – io, i miei fratelli – era che gli ebrei aspettavano.
Buffo!: gente che passava il tempo aspettando. Aspettando il
Messia”. E non solo lui.
Attraverso queste chiavi di lettura, Coccioli ripercorre, dentro la
propria vita, l’esperienza ebraica. Lo fa con una grande messe di testi,
conoscenze, esperienze vissute in tanti incontri. Con persone e
oggetti, parole e silenzi. Si troveranno, fra queste pagine, molte dotte
considerazioni: Coccioli ha una conoscenza diretta dell’ebraismo. In
senso personale – come ossessione – e dottrinario – come bagaglio
di letture. Fra cui c’è, ad esempio, quel Yossl Rakover che solo molti
decenni dopo conquisterà la propria celebrità editoriale, in Italia e
altrove. Ebbene, Coccioli già lo conosce, lo legge, ne rimane profondamente
impressionato. Così come da tanti altri testi – e ardui per lo
più – dell’ebraismo.
In sostanza, “Documento 127” non è soltanto un’autobiografia
passionale, sincera, quasi esuberante a volte. È anche una accorata
apologia dell’ebraismo. È, prima ancora, il verbale di un percorso di
esperienze e conoscenze capace di illuminare il suo lettore – che sia,
questi, lontano o vicino dalla condizione ebraica.
Elena Loewenthal