Genitori In Ascolto

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Una riflessione sul ruolo genitoriale risulta complessa e semplice nello stesso tempo: complessa perché implica elementi sicuramente opinabili, ed anche la scelta della priorità di un elemento rispetto ad un altro è discutibile; semplice perché, comunque, qualunque argomento si vada a trattare riguardante la relazione genitore-figlio, scuola-famiglia, ci troviamo ad affrontare temi che suscitano interesse e provocano empatia. Perché i genitori sono così interessati agli incontri nei laboratori? Questo atteggiamento scaturisce dal fatto che, quando parli del figlio, ai genitori parli del loro mondo: mondo dal quale, spesso, però, rifuggono, perché di fronte a situazioni che possono diventare problematiche e indeterminate, quando amiamo troppo, quando siamo troppo coinvolti, si attiva il meccanismo di scappare da una situazione che non sapremmo, altrimenti, come affrontare. Esiste una dimensione di proporzionalità inversa tra la crescita del figlio e la partecipazione delle famiglie alla sua vita scolastica; quando sopraggiunge l’adolescenza, un’età non problematica, come spesso si crede, ma più complessa rispetto alle precedenti, quindi più affascinante, i genitori sembrano estraniarsi dall’affrontare e dal comprendere la nuova situazione. Ciò accade perché, mentre, parlando con l’insegnante del nido, ci si interessa per sapere se e cosa il bambino ha mangiato, e a quella della scuola materna chiediamo come è stato, se si trova bene con i compagni, quando parliamo con i professori delle medie e delle superiori domandiamo, generalmente, quanto ha preso nel compito. Il 4 in matematica, per esempio, non è un voto che viene vissuto dal genitore come uno dei tanti elementi caratterizzanti la vita del figlio: magari ha un figlio splendido, che sta bene, ha molte ragazze, molteplici interessi, ha però anche 4 in matematica. Questa valutazione, data dall’insegnante che giudica il figlio, viene avvertita come un 4 alla genitorialità stessa. Il genitore, di fronte a quello che viene letto come fallimento del figlio, avverte una personale insofferenza e frustrazione, si chiede se ha sbagliato qualcosa e come poter rimediare, e le risposte dei professori sono, spesso, di una banalità orribile: viene consigliato di mandarlo a ripetizione o di stare attenti che non esca sempre. Si tratta di consigli che si limitano alla soluzione della situazione contingente; invece, proprio a quell’età, il figlio ha bisogno di altro. Quando, infatti, affrontiamo questioni che riguardano l’infanzia, dal momento che il genitore percepisce che, insieme a lui, altre istituzioni si prendono cura del figlio, questi aderisce maggiormente al progetto educativo; con l’insegnante del nido, con quella della scuola materna nascono, talvolta, micro-conflitti, ma si instaura, prevalentemente, un piano d’azione condiviso. Ci si rende conto che quella persona si trova lì per tuo figlio e, insieme a te, lo aiuta a crescere: questo è un segnale che rassicura il genitore, lo spinge a partecipare, ad interessarsi, a chiedere aiuto e sostegno. Quando, invece, i figli diventano adolescenti e la scuola, da educativa, diviene giudicante, il genitore comincia a “puntare” maggiormente sull’apparenza piuttosto che sulla sostanza. E’ sbagliato, ma inconscio e comprensibile; quindi inizia ad interessarsi al modo in cui l’insegnante valuta il figlio, non a come questi aderisce al progetto educativo. Questa visione deriva dal fatto che una vera e propria dimensione affettiva dell’insegnamento, alle medie e alle superiori, è lontanissima dall’essersi realizzata. Nonostante oggi le relazioni sociali procedano su una base affettiva che ha sostituito la dimensione etico-normativa, l’approccio didattico della maggior parte degli insegnanti italiani è di tipo astorico rispetto all’evoluzione relazionale che investe le nuove generazioni, perché mantiene un carattere serio e selettivo, nella convinzione che lo studente debba adeguarsi al contesto, e non viceversa. La scuola di oggi, metaforicamente parlando, può essere vista come un ospedale dove si cura soltanto chi è sano e in cui, se un insegnante parla di pedagogia, i commenti dei colleghi sono: “Ci mancherebbero anche questi discorsi!”, come se un medico, sentendo parlare di medicina, dicesse: “Ma ti pare che con tutte le cose che ho da fare devo perdere tempo anche con questo!”. Si tratta, ovviamente, di una provocazione, però è innegabile che il livello di attenzione della scuola italiana per la dimensione educativa è spesso questo. Quale è, quindi, la scommessa che dovremmo fare come insegnanti, educatori e genitori? Il modello di scuola e quello dei servizi della prima infanzia dovrebbe diventare paradigma, per il suo forte valore educativo, nonché punto di riferimento, per gli istituti degli ordini superiori; dovremmo puntare, cioè, su una scuola che, essendosi trasformata l’età evolutiva, valuti, giudichi, selezioni, come elemento secondario, mantenendo, però, come componente fondamentale, quella educativa.

Che significato assumono, in questa prospettiva, i laboratori? Il fine dei laboratori è il raggiungimento di livelli più alti di consapevolezza, fornendo un sostegno ai genitori, che avvertono, oggi sempre di più, crescenti difficoltà nello svolgere il proprio compito, essendo netta, in loro, la percezione di non esserne all’altezza. Fino agli anni Sessanta gli scambi tra famiglie nei vari contesti culturali erano più frequenti; dopo la Seconda Guerra Mondiale è diminuita la natalità e si è cominciato ad investire maggiormente, dal punto di vista educativo, su pochi figli. Oggi, quindi, risulta necessario sostenere la genitorialità, aiutando gli adulti ad educare se stessi, favorendo la condivisione delle proprie esperienze con quelle degli altri, per consentire ai genitori di acquisire maggiore consapevolezza del fatto che ogni età presenta problematiche comuni, pur essendo la relazione col figlio “unica”, e permettendo loro di recuperare anche, come dovrebbe fare l’istituzione scolastica, la dimensione emozionale dell’educazione, troppo spesso trascurata per privilegiare gli aspetti efficientisti. E’ essenziale, oggi, lavorare sulla componente emotiva delle persone, trovandoci in un periodo in cui i bambini non vedono espressi i sentimenti dagli adulti ma banalizzati dai mezzi di comunicazione. Da qui deriva la necessità di una maggiore consapevolezza emotiva; gli adulti tendono, infatti, sempre di più a nascondere i sentimenti, a celarli o a farli diventare oggetto di banalizzazione, come avviene, per esempio, in televisione, mentre le emozioni sono una componente essenziale della nostra umanità. L’esperienza dei laboratori, partendo dalla considerazione di Bollea che tutte le madri sono già sufficientemente buone, deve portare, pertanto, i soggetti interessati a spostare l’attenzione dal “come” educare al “perché” educare e fornire un ambiente in cui possano emergere risorse emotive e comunicative in virtù delle quali attuare una riflessione attiva e cooperativa sul fascino del proprio ruolo. La nostra società tende, spesso, ad evidenziare il problema e non la risorsa arrivando, come sosteneva Marcuse, a trasformare un evento gioioso, come, per esempio, crescere un figlio, in un’esperienza faticosa: è per questo che il genitore cerca schemi rassicuranti anziché puntare sulla creatività e sulla significatività, tanto promossa da Heidegger e dagli studi fenomenologici. I laboratori devono quindi contribuire a rafforzare nei genitori la consapevolezza del proprio compito ai fini dell’attuazione di una relazione significativa col figlio in cui il genitore stesso, adulto di riferimento, si prenda la responsabilità di aiutarlo a costruire la sua identità. Se le relazioni tra genitori e figli migliorano, l’intera società può, infatti, beneficiarne. I laboratori, quindi, hanno un senso. E’ doveroso fare, però, due precisazioni: che nessuno ha l’intenzione, né è in grado, di insegnare agli altri il modo giusto per fare il genitore, perché non esistono risposte definitive su questo argomento, essendo, anzi, paradossalmente, produttivo se le domande rimangono insolute; e che il vero obiettivo di ogni educatore, quindi anche dei genitori, su cui puntare l’attenzione, è quello di educere, cioè tirar fuori la personalità del bambino, per valorizzarne le caratteristiche positive, correggerne certi comportamenti e, soprattutto, garantirne il benessere psico-fisico senza imporgli un modello identitario precostituito.

Lamberto Giannini

Lamberto Giannini nasce a Livorno il 25 Aprile 1962. E’ pedagogista e docente di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico F. Enriques di Livorno. Da sempre molto attivo nel volontariato e nel teatro, è regista della Compagnia Teatrale Mayor Von Frinzius, formata da attori disabili e “normaloidi”. E’ consulente pedagogico di numerosi laboratori di educazione familiare per conto del CIAF del comune di Livorno e per altri enti pubblici e privati. Ha pubblicato numerosi saggi pedagogici sul tema della relazione genitori-figli sulla rivista Artiterapie oltre che articoli su argomenti del XX secolo in riviste specializzate quali Nova Historica.