Violenze, Amori e Abbandoni

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Cosa possono aver avuto in comune tre donne così diverse tra loro per cultura ed estrazione sociale? Combatterono per se stesse, addirittura contro la loro volontà. Per non compromettere affetti e relazioni familiari così importanti per la loro vita.

Furono costrette però a fare i conti con consuetudini e pregiudizi di ogni tipo, che attentarono realmente alla loro vita. Questo studio di Mario Baglini ha una solida base documentale, non gioca alla scrittura ad effetto ma anche nei momenti più delicati della vicenda si attiene rigorosamente, ai fatti mantenedo però una vera dimensione narrativa. I tre casi esposti sono frutto di ricerche effettuate alla Biblioteca Labronica di Livorno, all’Archivio Diocesano, all’Archivio di Stato di Livorno

1 caso Amalia Mattini (1820-1821) figlia di commercianti viene stuprata appena quattordicenne da un sacerdote del duomo di Livorno. Il prete per ottenere il suo scopo viola l’obbligo del segreto della confessione e ha come complice un altro sacerdote. Il processo che vedrà coinvolto don Andrea Guidetti, l’autore dello stupro, coinvolgerà la chiesa livornese nella figura del suo vescovo.

2 caso Angelica Palli (1831-1832) donna di grande cultura e sensibilità, appartenente ad una ricca e potente famiglia di mercanti di origine greca, vive una storia d’amore con un giovane (19 anni) Giovanni Paolo Bartolomei.  Discendente da una richissima famiglia livornese di origine corsa il giovane Bartolomei parte da Livorno con Angelica deciso a sposarla sfidando l’opposizione della famiglia. Lei ha trentaquattro anni ma la differenza di età non impedisce ai due di combattere una vera e propria guerra contro le famiglie, disposizioni religiose e pregiudizi

3 caso Elisabetta Sproni (1808-1811), una giovane di sedici anni di una famiglia importante della città sull’orlo del fallimento viene spinta ad un matrimonio di interesse. La  rinuncia all’amore e la costrizione a vivere uno stato di sudditanza fisica e psicologica spingono la giovane Elisabetta a comportamenti fuori dalla logica matrimoniale consolidata dell’epoca. Una vicenda che tra alti e bassi vede addirittura la comparsa della forza pubblica. Una storia che ha come teatro varie località della Toscana

Mario Baglini

Mario Baglini ha insegnato a lungo presso il Liceo Classico di Livorno, dove tuttora vive dedicandosi a ricerche filosofiche e storiche. Nel 2009 ha pubblicato Le memorie di Giuliano Ricci (Books & Company); ha scritto articoli e saggi pubblicati su riviste e in opere collettive. Per le edizioni Erasmo ha scritto la prefazione per il volume Fascisti a Livorno e provincia pubblicato nel 2011.
  Amalia Matteini, 1820-1821  
  1. “Ma per mia fatale disgrazia”
    Amalia, la figlia minore di Anna e Domenico Matteini, era nata a Livorno nel 1805 e fino all’età di circa dodici anni la sua vita era scorsa “nella più tranquilla pace che si possa desiderare su questa terra”,[1] nel seno di una famiglia appartata, devota  e soddisfatta che non faceva mancare niente a lei ed al fratello Luigi. I Matteini non facevano parte degli strati più elevati della società; si collocavano piuttosto nei ranghi di quella borghesia medio-piccola che si andava consolidando nella Livorno della restaurazione lorenese. Erano infatti titolari di un negozio di cappelli e, per quanto è possibile saperne, ricavavano da questa attività una condizione economica più che soddisfacente che consentiva loro un tenore di vita abbastanza agiato, l’istruzione per i figli, l’impiego in casa di due donne di servizio. Il padre Domenico era morto poco dopo la nascita di Amalia, nel 1806, e fu la madre a tenere in vita l’attività economica in società con il fratello del defunto, Giuseppe, che pochi anni dopo divenne il suo secondo marito. Amalia, nel suo Memoriale, sintetizzava così questo sereno andamento familiare: “cresciuta, insomma, mi trovai a star bene […] in tutte le buone educazioni Religiose e Cristiane, e ben contenta di vitto e vestito e di tutto quello che a me bisognava”.Giunta in una “età ragionevole”, cioè a sei anni, la madre ed il patrigno (che Amalia, con affetto, definiva entrambi “genitori”) decisero di dare una istruzione adeguata alla bambina ed, in particolare, di avviarla alla conoscenza di tutti “i Dommi [dogmi] di Religione” e della “Dottrina Cristiana”, che da loro, cattolici osservantissimi, erano considerati i fondamenti essenziali di una solida e sana formazione. La madre la condusse allora dal canonico Giuseppe Passanti, personaggio di un qualche rilievo nel clero livornese, che aveva buona fama di educatore e catechista, e per sei anni Amalia fu assistita da questo sacerdote che, probabilmente, attendeva alla vita religiosa e spirituale dell’intera famiglia. La ragazza, di quella sua prima esperienza educativa, ricorda soltanto che fu avviata al “sacramento della penitenza” e ricevette dal Passanti la prima comunione, sottolineando così il carattere nettamente religioso e morale della sua formazione. Le cose andarono nel senso desiderato finché il fidato canonico “un poco avanzato di età” decise di rinunciare all’incarico che richiedeva la sua presenza in casa Matteini molto presto la mattina, prima che la madre si recasse “a buon ora nel suo negozio”: il Passanti “non potendo essere mattiniero” perché evidentemente l’impegno gli era troppo gravoso, lasciò ad altri la cura della famiglia e di Amalia in particolare. “Ma per mia fatale disgrazia”, racconta ella stessa, al posto dell’anziano canonico venne introdotto in casa, come nuovo confessore don Andrea Guidetti, “amico intrinseco di mio fratello Luigi”, viceparroco della Cattedrale, giovane di ventisette anni. Il Guidetti era originario del paese di Capanne nel Comune di Sillano in alta Garfagnana, allora ricadente sotto il Ducato di Modena ed era stato inserito con modalità e tempi che non sono noti nel clero livornese, del quale faceva parte anche il fratello Bartolomeo, “sacerdote di angelici costumi, lo specchio degli ecclesiastici, pio, dotto, e devoto”,[2] autore di diverse pubblicazioni di carattere religioso e di un opuscolo sulla moralità del teatro e dei testi teatrali che suscitò attenzioni e polemiche in città.[3] Andrea era più giovane e meno conosciuto, ma godeva dell’apprezzamento e dell’appoggio del Vescovo Vicario, Girolamo Gavi, e la sua funzione di viceparroco del Duomo lo portava a contatto con le massime autorità e con le famiglie più importanti della città e lo inseriva in un contesto favorevole ad una rapida e brillante carriera. Sull’ingresso di don Andrea in casa Matteini e sulle ragioni che lo determinarono mancano informazioni più dettagliate: certo il cambiamento fu rilevante ed è lecito dubitare che la stretta amicizia col fratello Luigi da sola bastasse a motivare i genitori di Amalia a scegliere tra tanti altri sacerdoti, noti e sperimentati, questo giovane viceparroco di più incerte credenziali. Si può insomma ipotizzare che egli fosse raccomandato da qualche importante personalità del clero o della cerchia più influente dei cattolici osservanti. Come che sia il Guidetti assunse l’incarico di attendere alla vita spirituale dell’intera famiglia Matteini e di portare a compimento l’educazione religiosa di Amalia. Si era nel 1817. Don Andrea si fece subito apprezzare. Apparve a tutti “uomo degno di ogni bene”, che “non parlava altro che di santa religione”, che era pronto a riprendere severamente persino “una piccola bugia detta in celia”. Benché di esperienza limitata e meno autorevole del suo predecessore, fece mostra di una tale intensa spiritualità e di una così rigorosa adesione ai precetti cristiani che nel giro di poco tempo si conquistò la piena fiducia dei suoi “penitenti” e diventò qualcosa di più di un semplice educatore e consigliere spirituale. Era spesso commensale a tavola, e “in tutte le solennità e feste che correvano nell’anno” non ci si sedeva a mangiare “se prima non veniva lui a benedire la mensa e a restare con noi”; con la preghiera, i sacramenti, il rigore morale che ostentava e con l’amichevole consuetudine fu l’anima dell’armoniosa pace di quella famiglia che, “non avendo nessun sollievo profano”, si trovava immersa “in tutte le cose celesti” e in una perfetta serenità. In poco tempo “si era acquistato il cuore di tutti”, commenta Amalia, e per un anno nessuno ebbe a lagnarsi di lui.  


[1]           Memoriale di Amalia Matteini. Il documento si trova ora nella Biblioteca Labronica, indicato come “Testamento”, tra le Carte Mangini, busta 2.2, inserto 64. In realtà mancano tutti gli elementi propri del testamento: si tratta di una narrazione dei fatti salienti della sua vita, e quindi lo chiamerò d’ora in avanti “Memoriale”. Tutte le citazioni presenti nel testo, in assenza di indicazioni diverse, devono intendersi tratte dallo stesso Memoriale. Il linguaggio usato in questo scritto è spesso scorretto e talvolta mancante di coordinazione: perciò alle citazioni ho ritenuto opportuno dare una forma più facilmente comprensibile da un lettore contemporaneo, senza ovviamente alterarne il significato originario.  
[2]           Così lo descrive il Vivoli, per far risaltare la ben diversa moralità del fratello. V. Carte Vivoli, Storia di Livorno, ms., filza 2, Biblioteca Labronica Livorno.
[3]           L’opuscolo si intitolava Cosa è il teatro? E fu pubblicato a Livorno nel 1820 per i tipi di Zecchini e compagni.