Livornesi brava gente

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Descrizione

Da Maledetti toscani

di Curzio Malaparte

“OH, LE BELLE LIVORNESI FANNO UN FIGLIO OGNI DUE MESI”

Perciò, noi di Livorno, siamo così tanti che puoi trovarci in ogni parte del mondo.

Gino Bacci

Gino Bacci,livornese per nascita (25 dicembre 1936), formazione e spirito, è entrato giovanissimo al quotidiano "Il Tirreno", lasciandolo per diventare inviato e poi redattore capo al torinese "Tuttosport". Attuale direttore della collana Eco dell'editore Armenia per il quale ha scritto biografie dello juventino e nazionale Lippi, del milanista Berlusconi, dell'interista Moratti. Numerosi anche i suoi libri sullo sport labronico, fino a questo "Livornesi brava gente" a forte impatto campanilistico. Vive a Monza con intensa nostalgia per le proprie radici e svolge attività di opinionista televisivo a Milano.
IL RITORNO DEL PRESIDENTISSIMO CIAMPI - pagina 39 - Durante il settennato della sua presidenza della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi è arrivato a Livorno in visita privata, approfittando del novantesimo compleanno di una zia adorata. La città gli ha tributato gli onori che si debbono ai figli prediletti, con lo slancio sincero da riservare agli amici più cari. Un giorno intero trascorso nei luoghi della gioventù, fra volti da tempo noti, strade molte volte percorse passo dopo passo, e tantissima gente osannante, disposta a manifestargli devozione e affetto. Circondato dai familiari, fuori dall’ufficialità, anche un pranzo ai tavoli della Barcarola, per tornare ai sapori mai dimenticati. Insomma, il ritorno a casa di uno di noi. La cronaca avrebbe dovuto sottostare, almeno per un giorno, a questo rito tanto solenne, seppure così semplice e naturale. Evitare, per rispetto all’ospite illustre, un intreccio di avvenimenti che si potessero interpretare in maniera, se non perversa, quantomeno beffarda. Niente da fare: nel suo quotidiano cinismo, la cronaca non ha avuto questa elementare delicatezza. Eventi che il giornale labronico non ha mancato di segnalare, nel rispetto della completezza d’informazione, persino nella sua locandina esposta fuori dalle edicole. Viene a trovarci il nostro fratello più illustre, e cosa succede in città? A margine dell’annuncio della giornata “tutta livornese” trascorsa dal Capo dello Stato, la notizia del furto di 150 biciclette. Involontario e casuale accostamento di due eventi che ci ha portati, dritti e filati, al popolare e malizioso proverbio toscano. UNA STORIA DI CAPPA E SPADA - pagina 45 - Allo sport italiano sono sparite due medaglie, una è d’oro, l’altra è d’argento. L’avevano conquistate nella scherma Antonio Conte, laziale di Latina, e Italo Santelli livornese, dominatori nella sciabola, categoria maestri, alle Olimpiadi del 1900 a Parigi. Impresa cancellata d’imperio dal regime fascista negli anni venti. Nessuno ha mai reclamato la restituzione, cosicché il pur ricco medagliere olimpico di Livorno resta orfano di un trofeo, senza rimpianti e senza rancori perché Nedo Nadi e i suoi degnissimi eredi hanno poi provveduto a colmare il vuoto. La bacheca trabocca di trofei; di quella antica medaglia d’argento scippata si può tranquillamente fare a meno. Tuttavia si deve spiegare per quale ragione l’impresa di Italo Santelli è scomparsa nel nulla e la storia gli nega quel secondo posto conquistato nella sciabola a Parigi. Si deve fare un balzo avanti di un quarto di secolo, per arrivare ai “giochi” del 1924, anche questi disputati a Parigi. Erano tempi di dominio delle lame livornesi, arroccate orgogliosamente attorno al fuoriclasse Nedo Nadi, vessillifero dello squadrone vincitore di cinque medaglie d’oro alle precedenti olimpiadi di Anversa. Lui era l’incontrastato signore della scherma. Il segno di Zorro, la famosa Z che ha arricchito letteratura e cinema, altro non è che una N girata in senso orizzontale. Il segno di Nadi. Chi dice che i Moschettieri sono francesi, si rifà all’aneddotica ma ignora il valore di una scuola nata sulle pedane della nostra città guascona. Italo Santelli era uno di questi ragazzi, uno schermidore di razza. Nel 1887 era già così bravo da meritare un ricco appannaggio per insegnare alla scuola militare di Roma. Passato un decennio, partecipò ad una trasferta a Budapest dove sbaragliò il campo con tale superiorità da indurre l’ambiziosa federazione ungherese ad affidargli tutti i propri nazionali. Nessun altro maestro godeva di altrettanto credito. Dalle vetrate della sua bella casa sulla collina di Pest, con suggestiva vista sul placido Danubio blu, Santelli sentiva forte la nostalgia della scogliera di Calafuria, ma in sala non aveva remore e lavorava sodo. Lo squadrone magiaro cresceva bene sotto la sua guida sapiente, di livornese generoso, di schermidore astuto. Alle olimpiadi del 1924 a Parigi guidò l’assalto dell’Ungheria a due roccaforti ritenute quasi inespugnabili: la Francia e soprattutto l’Italia. Passati al professionismo i fratelli Aldo e Nedo Nadi, era rimasta in pedana, a perpetuare una tradizione, gente tosta e sanguigna, senza macchia e senza paura, come Oreste Puliti e Aldo Boni. Sarà proprio Boni a trascinare il concittadino Santelli nel gorgo della polemica più rovente e aggrovigliata. Vediamo come. Salgono in pedana al velodromo d’Inverno i fiorettisti d’Italia e di Francia. In svantaggio per 3-1, Boni incrocia la lama dell’astro nascente Lucien Gaudin, per il quale Parigi delira. Il livornese non fa una piega e risponde colpo su colpo, fino al quattro pari. Qui l’arbitro ungherese Kovacs assegna a Gaudin una stoccata mai arrivata a bersaglio. Nella concitazione delle proteste azzurre, Boni invita Kovacs “a dar via” una parte anatomica della quale ogni uomo è arcigno custode. La frase intrisa di rabbia e di toscanissimo dialetto, non giunge troppo chiara alle orecchie dell’arbitro. Non distante da lui si trova però Italo Santelli, che può far da interprete. Distante non più di due metri dall’azzurro, ha certamente udito quello che Boni ha gridato all’arbitro, la contestata frase terminata col fatale bisillabo “culo”. Santelli tergiversa, non vorrebbe infierire sul connazionale, sull’amico, sul concittadino, ma Kovacs non si dà per vinto e incalza impietoso. <>. Messo alle corde, Santelli spiffera, nudo e crudo, il significato dell’imprecazione, cosicché l’irriverente Boni viene sanzionato dalla giuria e dato sconfitto. Per protesta, la squadra italiana si ritira. Abbandona compatta il velodromo parigino cantando, in segno di scherno, una canzonetta di regime. La ben nota “Giovinezza”. La stampa italiana fustiga Santelli con inaudita durezza. Lo considera alla stregua di un traditore. “Santelli? Non è Italo, bensì ungaro”, scrive Adolfo Cotronei sulla Gazzetta dello Sport della quale è anche vicedirettore. Chiede per il maestro di sala l’esilio perpetuo dall’Italia della quale non sarebbe più degno, sebbene suo figlio Giorgio, nato a Budapest, avesse vinto ad Anversa la medaglia d’oro con la squadra azzurra in cui proprio i fratelli Nadi lo avevano chiamato. Sul pennone, il tricolore era salito anche grazie a lui, ma niente poteva mettere un freno a quella ondata di sdegno nazionale. Di ritorno da Parigi, giunto alla stazione di Torino, Santelli viene riconosciuto, insultato e schiaffeggiato. È l’ovvia conseguenza della campagna di stampa alimentata da Cotronei. Dall’ira della folla che grida al “traditore” e minaccia il linciaggio, lo salva a stento la polizia. Ferito nell’orgoglio, più che nel fisico, benché vicino alla soglia dei sessant’anni, il maestro sfida il giornalista a duello, poi si calma, si pente e incarica il figlio Giorgio di sostituirlo. Gli raccomanda la massima prudenza perché, nonostante tutto, non è il caso di infierire. Giorgio prende alla lettera l’invito a non esagerare quando, nelle brume del mattino del 28 agosto, nella campagna di Abbazia, si trova di fronte l’orgoglioso Cotronei, attorniato dai padrini. Potrebbe infilzare il rivale come un pollo allo spiedo, ma oltre al suggerimento paterno, lo frena un senso di ammirazione per il coraggio dell’uomo di penna che accetta il rischio di incrociar le lame con un campione olimpico. Para il primo assalto e risponde puntando l’arma sullo zigomo. Trattiene il colpo e incide sotto l’occhio un segno che assai vagamente ricorda la zeta vindice di Zorro. Forse è proprio quello il suo intento. I padrini tamponano la ferita e dichiarano terminato il duello. Cotronei avrà bisogno di una quindicina di punti di sutura e, per nascondere quel segno di sconfitta, prenderà a usare il monocolo dal quale non si separerà mai più. Il regime fascista non perdona a Italo Santelli, che – nonostante le offese – ha evitato di duellare, la cosiddetta “spiata” del velodromo d’Inverno. Gli rimprovera di aver tradotto, senza reticenze, l’impertinente esortazione di Boni all’arbitro Kovacs. Non potendogli disconoscere la ben nota livornesità, gli contesta la sua italianità. Tenuto conto che nel 1900 aveva gareggiato per la categoria “maestri”, peraltro regolarmente accettata dal CIO, dà ordine di cancellare dall’albo d’oro olimpico, le due medaglie, quella d’argento di Santelli, nonché quella del vincitore, anche lui italiano, Antonio Conte, laziale di Latina. Povero Antonio, non aveva neppure la colpa di aver fatto da interprete.